Evoluzione tattica - parte IV

Continua il nostro viaggio alla scoperta delle principali avanguardie tattiche che hanno rivoluzionato il gioco del calcio. Qui la prima partequi la seconda parte e qui la terza parte

In origine era il modulo della squadra a definire lo stile e i meccanismi di gioco di una squadra. Col catenaccio per la prima volta non è più il modulo a dare l’identità tattica alla squadra, bensì il principio di gioco. Riadattando il metodo (2-3-5), con i due mediani esterni che si abbassano sulla linea dei difensori per marcare ad uomo gli attaccanti avversari (mentre prima veniva prediletta una marcatura a zona, fuori dall' area), si forma una linea a 3 alle cui spalle agisce un difensore, libero da compiti di marcatura e che deve portare i raddoppi e spazzare i palloni vaganti.

La Svizzera di Karl Rappan e il “Verrou”
Il primo allenatore a testare questa soluzione fu l’austriaco Karl Rappan, allenatore della Svizzera ai Mondiali di Francia del 1938.

La mossa consisteva nell'arretrare il mediano in marcatura a uomo sul centravanti avversario, alle cui spalle vi era un difensore a dare copertura. Ciò faceva abbassare il baricentro della squadra di molti metri e rendeva impossibile l’attuazione del fuorigioco, ma dava molta più solidità alla retroguardia, che aveva istruzioni chiare e precise. Una volta riconquistata palla, possibilmente con gli avversari sbilanciati alla ricerca del goal, la squadra ripartiva con rapide transizioni che in pochi secondi consentivano di risalire il campo, grazie agli spazi concessi dagli avversari, costretti a difendere spesso  in inferiorità numerica.

La Svizzera di Rappan eliminò la Germania ai Mondiali del 1938, vincendo il replay della gara per 4-2. Nel 1950 fermò addirittura il Brasile sul 2-2 grazie alla doppietta di Jacky Fatton, abilissimo a sfruttare gli spazi concessi dal Brasile in ripartenza; portando i verdeoro (allora in maglia bianca) ad un passo dall’eliminazione nel mondiale casalingo.
Per gli avversari risultava particolarmente complicato giocare in spazi stretti e dover subire marcature ad uomo molto aggressive. Vista l’organizzazione tattica del tempo poche squadre avevano un sistema di marcatura preventiva che riuscisse a limitare le ripartenze degli avversari; queste furono le principali cause di successo di questo principio di gioco.

Gipo Viani e Alfredo Foni, la scuola italiana del catenaccio
In Italia il primo allenatore ad utilizzare un principio di gioco difensivo mirato al controllo degli avversari e dello spazio in ripartenza è Gipo Viani. Viani, ai tempi allenatore della Salernitana, utilizza il catenaccio come strategia di gioco per mascherare i limiti tecnici della sua rosa, già nella seconda metà degli anni Quaranta. Lo stratagemma ideato da Viani è particolare, ma allo stesso modo ci dà una fotografia del calcio dell’epoca. A quei tempi i numeri di maglia non erano personalizzati per singolo giocatore, bensì era il numero di maglia ad assegnare il ruolo in campo; l’idea di Viani era quella di schierare il suo numero 9 come centravanti al calcio d’inizio, ma appena la palla veniva mossa il numero 9, in questo caso Piccinini, anziché avanzare verso la porta avversaria arretrava per marcare ad uomo il centravanti avversario, andando a comporre una linea a 3 alle cui spalle agiva Buzzegoli, che molto probabilmente è il primo libero nella storia del calcio italiano.
Nel giro di pochi anni molti allenatori adottarono la soluzione tattica di arretrare il mediano in marcatura sul centravanti avversario, mettendo un libero alle spalle della linea difensiva, come Jesse Carver sulla panchina della Juve, Nereo Rocco sulle panchine di Triestina e Milan e Alfredo Foni sulla panchina dell’Inter. Questa soluzione anche oggi è applicata da molti allenatori che utilizzano un sistema difensivo orientato sull’uomo, ad esempio Bielsa tende a tenere un difensore in più rispetto al numero di attaccanti avversari, così da avere un uomo che possa coprire un duello perso o un buco difensivo; un principio simile viene utilizzato anche da Gasperini.
In Italia il primo allenatore a distinguersi per uno stile difensivo particolarmente accentuato fu Alfredo Foni, campione del mondo con l’Italia nel 1934. Infatti Foni, oltre a dirottare il mediano in marcatura sulla prima punta avversaria, preferiva difendere basso e lasciare il controllo del pallone agli avversari. Preso dall’Inter nell’estate del 1952, per riportare a casa uno scudetto che manca dal 1940, sin da subito le intenzioni del tecnico friulano furono chiare, migliorare la tenuta difensiva: infatti nelle tre stagioni precedenti l’Inter aveva subito 60 reti nel 1949-50, 43 nel 1950-51 e 49 nel 1951-52, pur riuscendo a piazzarsi sempre nelle prime posizioni. 

Il calcio di Foni è estremamente pragmatico. Frutto di una vigorosa difesa che impiega Armano, che parte da ala destra e finisce per occupare il ruolo di mediano, così da spostare il terzino destro Biason alle spalle della linea difensiva aiutando in marcatura Neri, Giacomazzi e Giovannini. Questa mossa riduce gli spazi e la libertà di movimento agli avversari in area di rigore. La mossa di arretrare di tanto il baricentro della squadra semplifica le transizioni offensive dei nerazzurri, con la coppia offensiva Nyers-Lorenzi supportata dal genio calcistico dello svedese Skoglund.

Nonostante le pesanti accuse della critica Foni riesce a vincere il campionato chiudendo con un solo punto di vantaggio sulla Juventus, ma soprattutto con la miglior difesa del torneo battuta solo in 24 occasioni, a fronte di un attacco che ha saputo produrre solo 46 reti. Nel campionato successivo rivince lo scudetto sempre con un punto di distacco sulla Juventus, riuscendo per la prima volta a far vincere all’Inter due campionati consecutivi. L’ottavo posto del 1955 gli è però fatale, infatti il neo-presidente Angelo Moratti, non lo riconferma per la stagione successiva, cedendo alle pressioni della critica, non convinta dal gioco espresso dall’Inter e suffragata dalla volontà del Presidente di vedere una squadra sì vincente, ma allo stesso tempo più spettacolare.

Italia-Svizzera, Mondiali 1954, la contaminazione culturale del gioco
Il 17 giugno 1954 all’Olympique da la Pontaise di Losanna va in scena la prima gara del gruppo 4, tra i padroni di casa della Svizzera e l’Italia. Lo stile di gioco degli Svizzeri è il consolidato Verrou, che aveva offerto buoni risultati sia ai Mondiali del 1938 che a quelli del 1950; l’Italia è una squadra reattiva non abituata a fare la partita, ma che si trova costretta a farla, vista la passività tattica degli avversari. La gara va in archivio con la vittoria degli Elvetici per 2-1. Appena sei giorni dopo però Italia e Svizzera si incrociano nuovamente per disputare lo spareggio tra chi accederà alla fase ad eliminazione diretta. L’Italia schierata in campo è una squadra molto offensiva studiata appunto per sfruttare al meglio la difesa bassa della Svizzera. Nonostante gli sforzi degli Azzurri, la difesa elvetica è impenetrabile e gli Svizzeri portano a casa risultato e qualificazioni battendo gli Italiani per 4-1.
Quella, secondo molti esegeti del calcio italiano, è la "partita della contaminazione". Vedendola oggi verrebbe da dire che la Svizzera ha battuto l’Italia giocando all’italiana. Il Verrou viene importato in Italia e diventa il Catenaccio. Interessante è dunque l’evoluzione del pensiero calcistico italiano, infatti si ritiene che la partita perfetta sia quella che termina per 0-0 dove entrambe le squadre non sbagliano nulla, come fosse un autentico stallo scacchistico. Viene ribaltata l’ottica dello scopo del gioco, che da “segnare un goal in più dell’avversario” diventa “subire un goal in meno dell’avversario”. Nel giro di pochi anni quasi tutte le squadre del campionato italiano acquisiscono configurazione difensiva. La critica non stronca più il difensivismo, anzi lo ritiene fondamentale per le caratteristiche dei calciatori italiani per raggiungere successi internazionali.

Rocco ed Herrera, il catenaccio sul tetto del mondo
Nell’estate del 1960, l’ambizioso Angelo Moratti ingaggia il tecnico del Barcellona campione di Spagna, Helenio Herrera, che sulla panchina catalana era riuscito nell’impresa di vincere il campionato, piazzandosi davanti al leggendario Real Madrid dei vari Di Stefano, Kopa, Puskas, Gento cinque volte vincitore la Coppa dei Campioni. Moratti voleva sì vincere, ma esprimendo un bel gioco, e quindi la scelta di Herrera andò in questa ottica. L’approdo di Herrera per certi versi segna un punto di rottura nel calcio italiano con un “prima Herrera” e un “dopo Herrera”. Se prima l’allenatore era un'appendice della squadra, un elemento sostituibile che lavorava dietro le quinte, con Herrera l’allenatore acquisisce importanza sia a livello di spogliatoio, ma soprattutto a livello mediatico, complice anche un ingaggio di 45 milioni di lire, uno sproposito per l’epoca.
Herrera sin dalle prime dichiarazioni fa capire che il suo credo calcistico è votato all’attacco e che vorrà un’Inter proattiva, pronta a fare la partita e a dominare l’avversario. I risultati iniziali gli danno ragione, vince in trasferta a Bergamo alla prima di campionato per 1-5, si conferma nella prima gara casalinga con un 2-1 al Bari, per poi battere 6-0 l’Udinese e 5-0 il Vicenza. Nelle prime sei giornate l’Inter totalizza 10 punti, segna 19 reti subendone solo 3.
Alla settima giornata i nerazzurri sono di scena a Padova, i veneti sono allenati da un santone del catenaccio che ha avuto alterne fortune tra Padova e Triestina, Nereo Rocco. L’Inter come al solito impone il suo gioco, costringendo il Padova a difendere molto basso, finché un rapidissimo contropiede dei padroni di casa trova impreparata la difesa nerazzurra per l’1-0 del Padova. Il secondo tempo ripropone lo stesso canovaccio tattico, Inter tutta in avanti e Padova a protezione della propria porta per cercare il contropiede vincente per il 2-0, che arriva nel corso del secondo tempo. Nei minuti finali l’Inter accorcia le distanze, ma Herrera è costretto ad incassare la sua prima sconfitta italiana. Da quella partita Herrera comincia a ritrattare il suo calcio abbracciando il paradosso che il miglior attacco è la difesa.
Nereo Rocco, il primo tecnico a battere Herrera in Serie A, conduce il Padova al sesto posto, guadagnandosi la chiamata del Milan per la stagione successiva su richiesta del direttore tecnico Gipo Viani. Appena arrivato, Rocco si trova di fronte a una serie di dilemmi tattici dalla complessa soluzione, innanzitutto sono venuti meno Schiaffino e un eccezionale metodista come Liedholm, poi deve risolvere il dualismo tra Greaves e Rivera per il ruolo di centrocampista offensivo. Rocco giunto a metà novembre trova un undici base che gli dà compattezza in difesa e gli garantisce rapide ripartenze. L’equilibrio a centrocampo gli viene dato dal brasiliano Sani, affiancato da due centrocampisti di rottura come Trapattoni e Radice; tra le linee agisce Rivera, preferito allo sregolato Greaves, che agisce dietro le punte Altafini e Barison. Con questa squadra il Milan vince lo scudetto, ottenendo la qualificazione per la Coppa dei Campioni dell’anno successivo. Il Milan in Coppa Campioni elimina l’Ipswich, il Galatasaray e il Dundee e si ritrova a giocare la finale contro il Benfica campione in carica di Eusebio, che però ha perso l’allenatore Bela Guttman. 


Il piano partita dei rossoneri è di resistere alla pressione offensiva dei lusitani per poi colpirli con rapide transizioni volte a risalire il campo. Il Milan dunque schiera davanti a Ghezzi tre difensori e due mediani in marcatura. Sulle fasce Mora e Pivatelli si abbassano molto per dare il massimo sostegno a David e Trebbi sulle fasce. Dai piedi di Rivera e Sani partono i palloni lunghi per far viaggiare i compagni negli spazi lasciati liberi dagli avversari.



Nonostante una partita particolarmente sofferta e giocata prevalentemente in trincea, il Milan al triplice fischio è la prima squadra Italiana a vincere la Coppa dei Campioni. Il racconto di Federico Buffa.

Mentre il Milan si issa sul tetto d’Europa per la prima volta, è l’Inter di Herrera, rimasto un po’ a sorpresa fra tanto scetticismo sulla panchina dei nerazzurri milanesi, a vincere lo scudetto. Herrera nelle successive annate italiane comprende che il suo calcio non può essere sostenibile in un campionato come quello italiano e quindi fa propri alcuni principi del catenaccio. La sua Inter inizialmente gioca alta per non farsi schiacciare sin da subito e trovare un immediato vantaggio, ma gradualmente arretra sul campo difendendo bassa e centralmente per poi proporre rapide transizioni che partono dai piedi di Suarez per cercare la corsa dei Corso, Mazzola, Jair e Facchetti il terzino sinistro con licenza di uccidere.

L’Inter ha ottimi meccanismi difensivi, implementati da appositi allenamenti messi a punto da Helenio Herrera. Facchetti, Guarneri e Burnich hanno come riferimento l’uomo, e alle loro spalle c’è il capitano Picchi, che in fase di  possesso si alterna con Guarneri per occupare la fascia lasciata sguarnita dalle sortite offensive di Facchetti. Bedin dà ordine alla difesa e compensa i limiti difensivi di Suarez che ha velleità creative, in quanto cervello e motore della squadra. Una volta recuperata palla tutti i giocatori sanno come muoversi per risalire il campo in pochi secondi e con semplici verticalizzazioni. Corso parte largo da sinistra, ma si accentra per lasciare campo alle avanzate di Facchetti e prendere in mezzo il terzino avversario. Mazzola svaria su tutto il fronte offensivo, pur partendo largo è uno dei giocatori più pericolosi, crea superiorità numerica vista la sua abilità nel saltare l’avversario. Jair con la sua velocità è il giocatore che in campo aperto diventa imprendibile e questa sua dote viene esaltata dai palloni che gli recapita Suarez. Peiro è l’attaccante titolare in coppa, funge da riferimento offensivo,  ma in campionato lo è Mazzola, con Domenghini mezzala destra.

Nel giro di due anni l’Inter vince due Coppe dei Campioni, 3-1 al Real e 1-0 al Benfica; vince due coppe intercontinentali contro l’Independiente e nel 1965 vince lo  scudetto, perso l’anno prima nello spareggio col Bologna. 

La fine del catenaccio
In ogni ciclo di vittorie arriva una parola fine: quella dell’Inter, e per certi versi anche del catenaccio, giunge il 25 maggio 1967 a Lisbona. L’Inter ha appena perso lo scudetto all’ultima giornata, ma è nettamente favorita sul Celtic per la vittoria della Coppa dei Campioni. Dopo 7 minuti l’Inter va in vantaggio su un rigore trasformato da Sandro Mazzola, proprio nello stadio dove il padre Valentino giocò la sua ultima partita. L’Inter, come ogni squadra che adottava il catenaccio, una volta passata in vantaggio abbassava di molto il suo baricentro per difendere il risultato e diventava quasi impossibile segnarle. Il Celtic attacca a testa bassa, ma Giuliano Sarti in più di un'occasione è miracoloso nel negare il pareggio. Si va al riposo sul risultato di 1-0 per l’Inter. Il secondo tempo procede come i precedenti 38 minuti del primo tempo, col Celtic in avanti a cercare il pareggio. L’Inter riesce a fare qualche ripartenza, ma non ha la freddezza necessaria per chiudere la gara. Al 63’ però i nerazzurri sono costretti a capitolare sul tiro di Gemmell che si insacca sotto l’incrocio dei pali. È l’1-1. L’Inter a questo punto anziché rialzare il proprio baricentro, alla ricerca di un nuovo vantaggio, si schiaccia ulteriormente a difesa della porta, così da poter sfruttare al meglio le ripartenze. La mossa non sortisce gli effetti sperati e il Celtic assume il totale controllo della gara, fin quando al minuto 84' riesce a capitalizzare la superiorità tattica; un tiro dal limite dell’area di Gemmell viene deviato sottomisura da Chalmers per il vantaggio scozzese. L’Inter nei minuti finali non c’è più, il suo ciclo si è esaurito, logoro da anni di difesa posizionale e ripartenze; il calcio si evolve e lo stesso sistema di gioco non può essere vincente in eterno. Il Celtic vince ed è la prima squadra britannica a trionfare in Europa e soprattutto la prima a fare un triplete.

Il video della gara


Il Catenaccio non fu pensionato, ma si evolve in una particolare attenzione difensiva e al dettaglio tattico tipico delle squadre e degli allenatori italiani. Il campionato italiano è tuttora vinto dalla squadra che subisce meno goal nel corso della stagione. Negli anni a venire molte altre squadre italiane trionferanno in Europa con un atteggiamento difensivo volto a creare lo spazio per rapide transizioni, senza però schiacciare troppo la squadra a difesa della porta.

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